Janáček, Hermanis e la stufa di Jenůfa

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“Jenůfa”, atto primo.

La ragazza è incinta e spera nel matrimonio riparatore con l’amato, ma l’altro pretendente respinto la sfregia, così l’amato (rivelatosi un farfallone) la lascia; il bambino nasce segretamente per non rivelare il peccato al cospetto del villaggio, ma la matrigna lo uccide segretamente favorendo così le nozze della ragazza con l’altro pretendente. Insomma, Jenůfa, scritta e musicata da Leóš Janáček nel 1904, è una perfetta trama da melodrammone morboso, che si nutre delle radici agresti e sanguigne della Moravia per fondare una diversa e autonoma tradizione operistica ceca, lontana dagli schemi italiani e tedeschi. Fin qui, ciò che si sa. La versione che ne offre Alvis Hermanis rappresenta un tributo speciale a quelle terre, o meglio alla grande tradizione di rinnovamento culturale e artistico proveniente da lì (la sperimentazione operistica di Janáček, appunto, ma anche la ricerca estetica di Alfons Mucha e quella architettonica di Jan Kotěra, maestri dell’Art Nouveau). Ma offre anche l’occasione per una riflessione più ampia a proposito di cosa significhi interrogarsi sulla rappresentazione della realtà e sulle pieghe del realismo, snodo centrale dell’esplorazione estetica di Hermanis in tutti i suoi spettacoli.

L’ossessione dell’adesione alla realtà parte dalla genesi stessa di quest’opera. Aveva iniziato Gabriela Preissová a dedicare la propria scrittura alla descrizione della vita “vera” dei villaggi e delle zone rurali di Boemia e Moravia, sia pure in una visione nazionalistica e mitica (all’epoca quelle terre erano sotto l’Impero Austro-Ungarico). Dal dramma di Preissová Její pastorkyňa del 1890, Janáček ricava il libretto di Jenůfa mantenendo la scrittura in prosa, contro le secolari convenzioni del libretto in versi, come ulteriore segno di adesione alla realtà: i contadini delle campagne morave parlano in prosa, non certo in versi come in un libretto di Lorenzo Da Ponte o Felice Romani. Non solo: disarticolando lo schema classico a blocchi musicali più o meno staccati ed eseguibili autonomamente (cioè arie, romanze, cori, ecc), Janáček crea una partitura musicale continua, un flusso acustico che rispetta il senso del flusso drammaturgico, che a sua volta rispecchia l’esperienza della realtà. Così, l’opera può svilupparsi non per blocchi, ma in una progressione coerente e “realistica”. Non solo: la musica stessa procede esplicitamente a partire dalla lingua. Dunque, non due codici paralleli, ma uno (la lingua, espressione della realtà) che genera l’altro (la musica, espressione dell’elaborazione artistica). Jenůfa è ricca di momenti in cui si coglie bene l’inedita ricerca musicale di Janáček: non ci sono vocalizzi innaturali, ma certi passaggi vocali della lingua ceca rimbalzano nella musica secondo modalità complesse che vanno dall’imitazione all’enfatizzazione al contrappunto. Nella breve nota di sala scritta per la prima rappresentazione dell’opera al Teatro Nazionale di Brno nel 1904 (tradotta nel libro stampato dal Teatro Comunale di Bologna per questa edizione), cogliamo l’insistenza con cui fin dalle origini Jenůfa è associata a un discorso sulla rappresentazione della realtà, e dunque avvertita dal pubblico coevo come un affondo in un nuovo realismo nazionale. Infatti, non solo si sottolinea l’appartenenza alla cultura morava e allo “spirito nazionale”, ma in quelle poche righe si parla di “principii di verità”, di “autentica espressione dell’anima”, di “espressione di verità”, di “espressione autentica”, di “rappresentazione realistica”… Insomma, la chiave di quest’opera sembra essere, fin dall’inizio, non tanto il racconto di un dramma sentimentale, quanto la necessità di sperimentare modalità di adesione al reale, attraverso novità come il libretto in prosa, la partitura musicale continua, le sonorità strumentali che nascono dall’oralità dei parlanti. Un’attenzione alla realtà che, peraltro, si intreccia a sua volta in modo sotterraneo con la trama stessa. Jenůfa, la protagonista, è infatti al centro di una dinamica di affermazione e negazione della realtà e della verità: lo spasimante Števa l’ama per la sua bellezza, e quindi ne ama l’apparenza e non la realtà; e d’altra parte Jenůfa nasconde a tutti la realtà della propria condizione di gravidanza, e infine la madre nasconde a lei l’infanticidio per piegare quella realtà sfortunata verso un destino più sereno. E in definitiva, le relazioni famigliari di tutti i personaggi, come in una soap opera americana, nascondono sotto un’apparenza rassicurante una realtà ben più articolata e complessa di intrecci. Su questa base si innesta la visione registica e scenografica di Alvis Hermanis, che muove in modo più evidente da un’adesione agli aspetti etnico-culturali, ma che sembrerebbe in verità trascendere dall’oggetto in sé per tentare un’esplorazione più ampia sulla rappresentazione della realtà e sulle sue insidie.

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“Jenůfa”, atto primo.

Il primo atto si apre con la visione di un gigantesco e prezioso soprammobile o bassorilievo. La gran parte della scena è occupata in verticale dalla proiezione dei volti femminili di Alfons Mucha alternati alle visioni pastorali di Joža Uprka che incastonano la storia in una cornice simbolica e georgica. Le immagini sono inserite all’interno di un rosone che si muove in senso antiorario, come a indicare il movimento rotatorio di un mulino (luogo dell’azione, secondo la didascalia del libretto originale, ed evocato musicalmente dal rintocco dello xilofono). Il rosone e le lesene laterali sono decorati con elementi floreali e stilizzati provenienti dalla biblioteca visiva del liberty. In basso, quasi schiacciato dallo schermo e dall’esuberanza visionaria di volti e paesaggi cechi di inizi 900, ecco un ambiente lungo e stretto, una sorta di corridoio o di fregio architettonico continuo, nel quale scorrono per tutto il tempo fluide figure femminili in una danza incessante e bidimensionale: un’ipnotica coreografia di Alla Sigalova dal sapore dei Ballets Russes e dalla plasticità di un altorilievo. Da questo “fregio” si staccano i personaggi, agghindati in sontuosi ed esuberanti costumi folkloristici firmati da Anna Watkins, che quasi ingigantiscono la figura e la decorano con stoffe a vivaci colori e ricercati cappelli. A un certo punto il grande schermo superiore si apre per mostrare, al di là, una gradinata razionalista, che ricorda vagamente (per rimanere in quest’epoca) i bozzetti scenici di Adolphe Appia, sulla quale sta il coro, anch’esso vestito con ricchi costumi diversificati per ciascun corista. Il racconto di Jenůfa viene calato da Hermanis in un’ambientazione che si confronta con gli stereotipi di una certa rappresentazione decorativa e folkloristica di novelle a sfondo etnico, ma al tempo stesso ne propone una contestualizzazione storica, e soprattutto se ne allontana con uno sguardo fondamentalmente di distacco ironico. Il cromatismo e la sovrabbondanza dei costumi e la loro evidenza territoriale sono centrali nella definizione di un immaginario stereotipicamente pseudo-documentaristico, mentre d’altra parte le nuances color sabbia del “fregio” e delle danzatrici e soprattutto il mastodontico schermo che le sovrasta fanno slittare la contestualizzazione dall’atmosfera agreste atemporale a quel periodo storico di grande elaborazione artistica e intellettuale che accomuna Mucha, Janáček e tanti altri protagonisti delle avanguardie pre-avanguardistiche mitteleuropee di inizio 900. Insomma, spiazzamento e ironia. Che sembra avere un ulteriore rimbalzo nell’attitudine dei personaggi a cantare quasi sempre inginocchiati o seduti, e sempre schierati in parallelo al boccascena: eliminando, cioè, al tempo stesso la verticalità (peraltro già inibita dal soverchiante schermo Art Nouveau) e la profondità. Jenůfa, la matrigna, la nonna, i due contendenti, ci appaiono come statuine di un affresco popolare, che racconta una ‘banale’ storia sentimentale da racconto condiviso a mezza voce durante le veglie dopo il raccolto: guarda, quella è la ragazza rimasta incinta che sperava di sposare il suo amato; quella è la matrigna dura e arcigna; quello è il fidanzato, un poco di buono; quell’altro è il rivale che finisce per sfregiare la povera fanciulla… quante ne avranno sentite i nostri avi contadini di storie così? E quanto è ironico, oggi, nel 2015, raccontarlo, e farlo sottolineandone in modo abnorme la provenienza paesana? Il primo atto è potentemente, prepotentemente, anti-realistico: la proiezione ideale di una storia senza vero spessore, stilizzata nei suoi elementi visivamente più eclatanti, perfino nella prossemica.

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“Jenůfa”, atto secondo.

Il secondo atto cambia radicalmente prospettiva concettuale. Scomparsa ogni cornice visionaria, rimane in luce solo lo spazio oblungo del “fregio”, che però adesso ospita la povera casa della protagonista in un verismo estremo e in un potente slittamento temporale verso l’attualità. Siamo in pieno verismo, con soluzioni che, in questo contesto, riportano immediatamente ai primi esperimenti di André Antoine: la madre pela davvero le patate e accende il fornello della cucina, che sostituisce la stufa prevista da Janáček nelle didascalie del libretto (che Hermanis non aveva preso in considerazione nel primo atto). La fiamma azzurrina del gas che esce dalla stufa alimentata da una vecchia bombola a vista racchiude il senso di una scenografia in cui campeggiano un frigorifero, un piccolo televisore sempre acceso, immagini sacre con i lumini elettrici e così via. Dalla stilizzazione tra il simbolico Mucha e il bucolico Uprka del primo atto piombiamo in un verismo materico che riporta indietro negli anni (verso il Théâtre Libre di Antoine, appunto, cioè alla fine dell’800), ma che ci proietta anche in avanti, verso un immaginario realistico cinematografico che da certe pellicole americane del muto approda al nostro neorealismo. O, meglio, a un realismo lacrimoso alla Matarazzo, perché è comunque di melodramma che stiamo parlando. La cornice verista serve a contenere l’apice drammatico (e melodrammatico: anche per la presenza di alcuni momenti musicali e canori particolarmente intensi, sostenuti soprattutto dalla vocalità e dalla presenza di Angeles Blancas Gulin, il soprano interprete della matrigna, e dalla direzione di Juraj Valčuha). E’ in questo atto che il raccontino sentimentale e gli infingimenti del primo atto giungono alla loro svolta. E’ qui che la realtà (anche quella più cruda) prende il sopravvento, facendo svanire le apparenze viste in precedenza: la matrigna uccide il neonato, il bellimbusto mostra il suo vero squallido volto, lo sfregiatore dimostra la sua più profonda umanità. La realtà reclama una rappresentazione iperrealista: ma, si sa, l’iper forza il realismo, e ancora una volta la realtà sfugge… Dall’ironia del primo atto, espressa attraverso il folklore e l’Art Nouveau, si arriva così all’ironia del secondo atto, espressa da un verismo artefatto, dove la fiamma della stufa e dei fornelli è talmente plateale nella sua anomalia teatrale da slittare dallo statuto della realtà a quello della rappresentazione, dal verismo a un nuovo simbolismo. In una presunta attualizzazione che suona ulteriormente falsa, o meglio parziale: una scheggia di Cronaca Vera o trash tv completamente avulsa dalla realtà. Ma è evidente che proprio il confronto tra l’ambientazione del primo e quella del secondo atto porta in primo piano il senso centrale dello spettacolo: l’interrogazione sulla rappresentazione della realtà, o meglio quella che all’inizio ho definito l’ossessione dell’adesione alla realtà. Perché lo spettatore dovrebbe sentire più aderente alla realtà il secondo atto rispetto al primo, se si tratta della medesima storia? Cosa dà il senso di realtà: una storia o la sua narrazione visiva? E dunque, la realtà è data dall’immagine? Le domande nascondono una scorrettezza ideologica, ne sono consapevole, ma il punto non cambia: davvero la nostra percezione di un realismo riconoscibile della rappresentazione dipende dall’immagine anziché da ciò che accade, e quindi avvertiamo come “vero” questo secondo atto rispetto a un primo atto artefatto?

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“Jenůfa”, atto terzo.

Lo scarto ironico di Hermanis giunge al culmine nel terzo atto, che ci ripiomba nell’ambientazione simbolica del primo. Unica differenza sostanziale: gli interpreti cantano in piedi anziché accucciati. Il ritorno alla rappresentazione stilizzata dopo aver attraversato il realismo spinto (con le ambiguità di cui ho detto) è pieno di interrogativi. Pare che Hermanis si sia preso gioco di noi, mostrandoci per un attimo una “realtà” in cui ci siamo sinceramente sentiti coinvolti, per poi riportarci a un livello di estrema finzione. Si potrebbe dire, dall’artificio all’autenticità e di nuovo all’artificio. Eppure, la storia è la stessa: e se ci siamo sentiti più toccati quando la matrigna decide di uccidere il piccolo, tra una patata pelata e un fornello acceso, tra la stufa e la tv, perché ora ci sentiamo così distaccati quando quello stesso piccolo cadaverino ricompare in scena nel tripudio cromatico degli ingombranti costumi moravi, mentre le glaciali danzatrici nijinskiane si rapprendono in languide pose plastiche? La questione può però essere posta anche in altro modo: il secondo atto costituisce, in un certo senso, la scoperta della realtà dietro gli schemi della narrazione popolare. In altre parole, partiti da una narrazione “bidimensionale” e iconograficamente allusiva, si attraversa la “realtà” tridimensionale e materica, e infine si ritorna a quei meccanismi stilizzati dietro i quali sappiamo, però, agitarsi una crudezza naturalista inimmaginabile se solo ci si sofferma sulla superficie. Il terzo atto, d’altronde, è quello del lieto fine: la preparazione del matrimonio, la scoperta dell’infanticidio e dell’assassina, il superamento positivo di questa crisi con la sostanziale ‘comprensione’ della matrigna e con il matrimonio. Così, passati attraverso alla “nuda verità”, la storia si riassesta sulle apparenze: ogni scelta attuata nel terzo atto si smarca dalla realtà mostrando solo il riaffermarsi delle relazioni sociali, fino a un ambiguo trionfo dell’amore, con Jenůfa che in pochi secondi passa dal distacco all’amore “vero” (così canta) per il pervicace Laca, in quanto “benedetto da Dio”.

In un suo scritto ripubblicato nel prezioso volumetto del Teatro Comunale, Janáček ribadisce la profonda adesione alla realtà, a partire dalla sua musica: “Mentre stavo componendo l’opera Jenůfa, mi occupavo intensamente delle cadenze del parlato. Origliavo furtivamente i colloqui dei passanti, leggevo nell’espressione dei loro volti, ne seguivo cogli occhi ogni moto; osservavo l’ambiente dei parlanti, le loro compagnie, il tempo e l’ambiente del colloquio: luce e ombra, freddo e caldo”. E conclude: “In Jenůfa i motivi di ogni singola parola sono aderenti alla vita”. Hermanis, che non è musicista e non è ceco (e quindi non può cogliere il senso di “verità” che può cogliere un parlante ceco nel sentire la fusione tra la propria lingua e la musica di Janáček) smonta questo processo: prima evita di osservare i “passanti” e fissa invece con cura i ritratti antiveristi dei pittori cechi, poi mostra la “aderenza alla vita” attraverso il minimalismo recitativo e una scenografia che allude a un classico trovarobato, e infine si smarca dalla questione sulla realtà per cercare una realtà altra, che è quella di una pura e fantasmagorica teatralità dove tutto è possibile e dove il lieto fine riesce a diluire perfino un infanticidio in semplice incidente di percorso. Viaggio nella realtà e ritorno alla rappresentazione. In barba alle patate della matrigna e alla stufa di Jenůfa.

Jenůfa, musica e libretto di Leóš Janáček, dal dramma La sua figliastra di Gabriela Preissová; con Andrea Dankova, Brenden Gunnel, Ales Briscein, Angeles Blancas Gulin, Gabriella Sborgi, Maurizio Leoni, Luca Gallo, Monica Minarelli, Leigh-Ann Allen, Arianna Rinaldi, Roberta Pozzer, Sandra Pastrana, Grazia Paolella; danzatrici Angela Sanchez Gonzales, Lea Bechu, Delphine Simons, Fanny Vandersande, Hanne Schillemans, Janet Novas, Lisa Van Den Broeck, Manuela Schneider, Martina Orlandi, Viola Vicini, Diletta Della Martira, Novella Della Martira, Marta Tabacco, Mariangela Massarelli, Veronica Gambini, Martina Platania; direttore Juraj Valčuha; regia e scene Alvis Hermanis; Maestro del Coro Andrea Faidutti; costumi Anna Watkins; luci Gleb Filshtinsky; coreografie Alla Sigalova riprese da Anaïs Van Eycken; drammaturgia Christian Longchamp; video Ineta Sipunova; assistente alla regia Marielle Kahn; allestimento del Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con Théâtre de La Monnaie / De Munt Bruxelles; Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna.

Visto a: Bologna, Teatro Comunale, 21 aprile 2015.

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